Rivista Anarchica Online
Un anarchico
scomodo
di Nico Berti
Assassinato a
soli 40 anni da agenti staliniani, pur avendo trascorso gran parte
della sua vita adulta tra persecuzioni, povertà, esilio ed
espulsioni, Camillo Berneri è stata una delle figure più incisive e
ancor oggi stimolanti, nel panorama dell'anarchismo internazionale. In queste pagine
(tratte dal suo saggio pubblicato nel volume commemorativo del
cinquantenario della morte di Berneri, edito dall'Archivio Famiglia
Berneri di Pistoia) lo storico Nico Berti esamina alcuni aspetti del
pensiero berneriano e ne evidenzia i numerosi spunti d'attualità.
Il problema del
revisionismo
"Quello che è
certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai
compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. I
dissensi vertono su questi punti: la generalità degli anarchici è
atea e io sono agnostico, è comunista e io sono liberalista (cioè
sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e
lavoro e commercio individuali); è antiautoritaria in modo
individualista ed io sono semplicemente autonomista federalista
(Cattaneo completato da Salvemini e dal sovietismo)". Quando
Camillo Berneri scriveva queste righe al repubblicano Libero
Battistelli alla fine degli anni '20, la sua revisione ideologica era
arrivata a maturazione. Era stata, la sua,
una tormentata riflessione che lo aveva portato nel movimento
anarchico ad una posizione di isolamento, come egli stesso
puntualizzava qualche anno dopo riconoscendo, in una lettera a Luigi
Fabbri, che "non ci posso niente, in questo mio non trovarmi
d'accordo con quasi nessuno". Eppure Camillo
Berneri non avrebbe certo potuto affermare di non essere stato
pazientemente letto ed ascoltato in sede internazionale, dal momento
che i suoi scritti erano stati ospitati con grande liberalità e
tolleranza dai maggiori periodici anarchici di mezzo mondo, da Roma a
New York, da Londra a Parigi, da Ginevra a Buenos Aires, da Bruxelles
a Barcellona, da Montevideo a Chicago. Cosa rendeva difficile,
allora, questa audience? Il fatto è che il suo interrogarsi,
pur volendo essere una semplice revisione metodologica ("Il mio
"revisionismo" è una piccola riforma del metodo e verte
sullo stile della propaganda più che sui principi"), si
presentava invece il più delle volte come un ripensamento generale
sui principi. Ed era egli stesso ad alimentare questa convinzione
creando molti equivoci ed incomprensioni. Nel pieno della sua
polemica sull'astensionismo elettorale scriveva: "Un anarchico non
può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si
chiamano dottrine) e non può che dare ai principi un valore
relativo". A suo dire, del resto, tutta la storia del pensiero
anarchico era stata una storia di eresia. Bakunin aveva rivisto
Proudhon, Kropotkin aveva rivisto Bakunin, Malatesta aveva rivisto
Kropotkin: "L'eresia stessa non è, nel campo nostro, che la
cristallizzazione del revisionismo". Logico, quindi, che il
richiamo ai principi lo lasciasse indifferente. In tutti i casi, in
lui è rappresentato il primo autentico momento in cui l'anarchismo
si interroga criticamente su se stesso, e si interroga in un momento
cruciale della sua storia. Nei vent'anni decisivi che corrono dalla
rivoluzione russa alla rivoluzione spagnola giunge infatti a
maturazione l'intero ciclo storico iniziato nel 1872, un ciclo che
aveva visto il movimento anarchico come parte integrante del
movimento operaio e socialista. Nella figura e nell'opera di Camillo
Berneri sono dunque riflessi, nel modo più evidente e lacerante, i
temi, i problemi e le improrogabili scelte dell'anarchismo nell'età
che segna la fine del regime liberale della vecchia Europa. Dal 1917
al 1937 Berneri vive la drammatica consapevolezza del progressivo
esaurirsi del movimento anarchico come movimento nato nel solco del
socialismo rivoluzionario della Prima Internazionale. Quella di
Berneri è un'esemplare parabola che trova nella sua tragica morte
l'approdo più eloquente ed emblematico. Egli è
un'inquieta, persistente e impertinente domanda posta nel cuore e nel
cervello del movimento anarchico italiano e internazionale. Quale è
il ruolo dell'anarchismo dopo la vittoriosa rivoluzione d'ottobre?
Che posizione devono prendere gli anarchici di fronte all'avvento dei
regimi totalitari? Ha ancora senso il rifiuto categorico della
dialettica politica dopo i decenni infruttuosi dell'attesa
rivoluzionaria? È vero
che l'anarchismo muore se si media con l'esistente? Gli schemi
sociologici del vecchio patrimonio scientifico sono capaci di
rispondere alle domande poste dal mutamento strutturale avviato dai
nuovi assetti socioeconomici? L'anarchismo, per essere anarchismo,
deve rimanere ancorato ad un orizzonte filosoficamente
materialistico? L'anarchismo, cosa significa essere anarchici dopo la
svolta epocale della psicanalisi? Cosa è l'anarchismo, oltre ad
essere un'ideologia politica? La tormentata
riflessione di Berneri è segnata dall'intrecciato, caotico,
tumultuoso susseguirsi di queste e molte altre domande poiché il suo
anarchismo altro non è che il problema della revisione
dell'anarchismo stesso (una revisione che oggi, per certi versi,
potremmo rapportare ad un ripensamento generale sulla natura del
potere). Caotica e tumultuosa riflessione dal momento che egli non
svolge il suo pensiero a tavolino, ma nel fuoco incrociato della
battaglia, per di più da una posizione di prima linea. Berneri è un
intellettuale anarchico militante; pertanto lo sviluppo del suo
pensiero risente, nel bene e nel male, della coniugazione di queste
due dimensioni. Ora noi vogliamo
vedere in che senso e fino a che punto la riflessione berneriana si è
spinta nel processo di revisione. Vogliamo capire se si tratta di
lucida revisione o di sentimentali inquietudini e cosa significa,
comunque, tutto questo per la storia dell'anarchismo. A tale scopo
non possiamo distinguere nella sua opera la riflessione teorica
dall'azione pratica. In lui inoltre, come in ogni anarchico, risulta
altrettanto impossibile dividere la fede ideologica dalla ragione
perché è sotto la stretta interdipendenza tra etica e politica che
si svolge la sua intera militanza. Nel 1916 motiva la sua uscita dal
partito socialista affermando che occorre amare un'idea fino a
sacrificarle "tutta la vita in una dedizione completa perché la
causa dei popoli è come quella della religione: non trionfa che per
le virtù dei martiri"; nel 1937, alla vigilia del suo
assassinio da parte dei comunisti, scrive alla figlia: "Che cosa
sarebbe l'uomo senza questo senso del dovere, senza questa commozione
di sentirsi unito a coloro che furono, ai lontani ignoti, e ai
venturi?". "Ci si può disilludere su tutto e su tutti, ma non
su quello che si afferma con la coscienza morale". La militanza di
Berneri va sotto il segno di uno spiritualismo rivoluzionario.
Contro l'unicismo
dottrinario
Non si intende il
senso della polemica berneriana verso ogni forma di unicismo
dottrinario se non la si inquadra nel clima del dopoguerra. Il
rivolgimento scaturito dalla catastrofe bellica con il suo emergere
di forze irrazionali in uno scacchiere politico e sociale fino a
pochi anni prima imprevedibile, mette Berneri in una posizione molto
lontana dalla tradizione positivista e materialista della precedente
cultura anarchica. Scriverà nel 1935 a conferma di questa svolta:
"Quello che vi è di morto nella tradizione attuale dell'anarchismo
non sono che i residui del materialismo socialista e del nazionalismo
borghese". Egli avverte insomma l'esigenza di rispondere alla
sfida che sale dalle forze sprigionate dalla caduta della vecchia
Europa che in Italia si manifestano o nel protagonismo delle masse
operaie e contadine, enfatizzato dall'estremismo demagogico dei capi
rivoluzionari, o nei torbidi propositi irrazionali di segno ultra
individualistico ed estetizzante. Questi due versanti influenzano le
ali opposte del movimento anarchico, quella comunista e quella
individualista, ed è quindi necessario a suo giudizio un'opera di
riequilibrio. Contro gli
individualisti, che assolutizzano il concetto di libertà
individuale, Berneri recupera il lascito etico del socialismo
umanitario trasmessogli dal suo primo maestro Camillo Prampolini.
Egli attacca le rivendicazioni della libertà assoluta, sia sotto la
mitizzazione giusnaturalistica, sia sotto la più agguerrita
propensione nietzschiana e stirneriana ("La concezione etica e
sociale del Nietzsche è antisocialista. E ancor più è in antitesi
con l'anarchismo"). A giudizio di Berneri una semplificazione
ideologica di queste filosofie porta ad un irresponsabile immoralismo
privo di ogni senso della realtà. Egli rivendica per contro sul
piano morale l'imperativo categorico kantiano mentre,
contemporaneamente, è attento alla lezione della scuola
storicistica. Si vede qui il tentativo di recuperare in chiave
positiva gli insegnamenti bakuniniani, particolarmente per quanto
attiene alla polemica contro Rousseau, e, ancor più, di attualizzare
la dialettica antinomica di Proudhon. Berneri ricorda infatti che la
libertà non si dà che in un continuo e inscindibile rapporto con le
condizioni poste dalla necessità. Certo, la libertà
è senza dubbio tensione e sforzo individuale, ma è anche scienza
dei nessi che legano e piegano l'azione umana entro un contesto
storico determinato. Nel pensiero di Berneri confluiscono dunque allo
stesso tempo una concezione illuministica ("la libertà è il
potere di obbedire alla ragione"), ed una più moderna concezione
relativistica (la relatività è "la base del concetto di
libertà"). Se necessità e libertà sono costitutivi del farsi
stesso della libertà, che cosa dunque sostanzia specificamente
l'anarchismo? "Una migliore concezione dell'autorità", vale a
dire il fatto che l'anarchismo è precisamente quella dottrina morale
e quella scienza sociale che più di qualsiasi altra sa, per
l'appunto, ridurre l'autorità nei limiti della necessità. Ne deriva
una visione dell'anarchia che sul piano della dimensione politica
inclina decisamente verso il liberalismo. Berneri afferma senza
indugio che la società anarchica non può essere "la società
dell'armonia assoluta, ma la società della tolleranza". Ma la critica
dell'individualismo non si accompagna affatto ad una svalorizzazione
della tensione ideale che motiva l'azione dei singoli e delle
minoranze rivoluzionarie. Se rispetto al concorrente individualista
Berneri fa ricorso ad una scienza sociale intrisa di materialismo
storico e di realismo sociologico, nei confronti della corrente
comunista rivendica il valore irriducibile della volontà soggettiva
e dello spiritualismo rivoluzionario. Per Berneri il comunismo
anarchico non si risolve in uno spontaneismo sociale, come vorrebbero
i suoi seguaci, ma in un deteriore determinismo scientifico. Non sono
le masse a determinare la trasformazione sociale, ma le minoranze
rivoluzionarie a cui è assegnato un "compito eroico"
perché "il genio della rivoluzione non è genio di maggioranze, ma
di minoranze fattive". Di conseguenza non è possibile
rinchiudersi "in una determinista o gradualista concezione
storica, nella quale non ci sia posto per l'audacia, del pensiero o
dell'azione, del singolo e dei pochi". Si vede così come
Berneri si trovi tra i due fuochi del realismo oggettivistico e del
soggettivismo idealista, come si intitola proprio un suo saggio.
Riconosce con gli individualisti il ruolo propulsivo delle minoranze
agenti, il valore decisivo dell'azione individuale nel maturamento
storico; però è restio ad enfatizzare oltre misura il ruolo
"eroico" dei singoli perché questa enfatizzazione è
propedeutica alla cultura della gerarchia e del dominio. La
conclusione è quindi questa: l'anarchismo non può identificarsi in
uno sterile e astratto individualismo; non può nemmeno, però,
risolversi in un populismo demagogico. In questa posizione di
"centro" si rivela lo sforzo e il significato della
problematizzazione berneriana dell'anarchismo. Sulla scia
dell'insegnamento salveminiano, essa vuole infatti sviluppare un
criterio metodologico che faccia, per l'appunto, del problemismo
l'antidoto contro ogni unicismo e contro ogni semplificazione.
L'autonomia della
morale
Il relativismo
problematico non vale solo sul piano ideologico, ma anche su quello
filosofico-morale. In questo campo infatti si svolge la polemica di
Berneri contro l'ateismo assoluto da un lato e dall'altro contro lo
stereotipo positivista tendente a risolvere il problema etico come
problema di una scienza dei costumi. Egli non accetta la soluzione di
Kropotkin che, a suo avviso, "sviluppatasi sul terreno
naturalistico ed etnografico, confuse l'armonia di necessità
biologica delle api con quella discordia discors e quella
concordia concors propria dell'aggregato sociale". In questo
rifiuto della soluzione kropotkiniana, considerata ingenua e
semplicista, è possibile misurare tutto il distacco che separa la
riflessione di Berneri dal vecchio patrimonio ideologico fondato in
gran parte sul lascito materialista e positivista. Con ciò si tocca
uno dei punti più alti della sua revisione, dal momento che
l'abbandono dello spontaneismo comunistico e kropotkiniano (che
giustamente egli considera una forma paradossale di assolutismo)
implica una riconsiderazione della questione etica. Questa non può più
essere pensata come una variabile del problema sociale secondo il
vecchio teorema socialista per cui la soluzione dell'uno comporta
automaticamente anche la soluzione dell'altra. A suo giudizio la
questione etica ha una fondazione autonoma. Volendola compendiare
proprio con le parole del più grande positivista italiano, essa "è
formazione storica, processo educativo; ma è anche principio
assoluto". Per Berneri il contesto storico dà la forma sociale
della morale, ma l'istanza che emerge in ogni luogo e tempo
testimonia la sua universalità, conferma la sua "irriducibile
autonomia". Tutto ciò deve far riflettere e deve portare
l'anarchismo a riconsiderare l'intero problema religioso, dal momento
che la religione è proprio la risposta più ovvia a questo
insopprimibile bisogno. Esiste dunque, per Berneri, una effettiva
impossibilità di arrivare ad un nichilismo puro e assoluto. Abbiamo così, con
queste riflessioni, la prima autentica inquietudine nel campo
anarchico rispetto al più generale problema della secolarizzazione.
Per Berneri un ateismo assoluto si traduce in un teismo rovesciato
con l'ovvia conseguenza che l'immanentizzazione del divino sfocia in
un dogmatismo totalitario o in un compromesso utilitaristico di
cattivo valore educativo. La propaganda atea tesa a dimostrare
l'inesistenza di Dio rivela tutti i suoi "vecchiumi
materialistici". Occorre abbandonare l'anticlericalismo quale forma
di antireligiosità. È altresì importante sviluppare una specifica
sensibilità verso le nuove forze spirituali, anche se queste si
manifestano nell'ambito della Chiesa cattolica, come è il caso, ad
esempio, del Partito Popolare. Necessita infine una riconsiderazione
della religione capace di superare la riduzione positivistica
tendente a porre lo spirito religioso come infanzia dello spirito
umano. Da tutto questo Berneri ricava una conclusione lapidaria: "Non
sono ateo, bensì agnostico". Anche rispetto
all'emancipazione femminile, l'anarchico italiano prende una
posizione molto lontana dalla comune visione libertaria. Egli ritiene
immorali le concezioni edonistiche che esaltano l'eroticità della
femmina a scapito della dignità della donna. A suo giudizio un
edonismo fine a se stesso riflette una alienante concezione
nichilista della vita, mentre bisogna considerare il problema
femminile in tutta la sua inevitabile complessità. Per Berneri
risulta pertanto arbitrario valutare la donna e il suo posto nella
società prescindendo dalla sua effettiva dimensione di madre. A suo
giudizio la sessualità femminile non è funzionale a se stessa
perché è in rapporto alla procreazione. Essa non può essere
pervasa da quel vitalismo che si ritrova invece nel maschio. Nella
donna la sessualità risulta sempre accompagnata dal sentimento
materno per cui ne deriva che l'emancipazione femminile trova la sua
vera e naturale collocazione nell'ambito della famiglia. La donna
realizza veramente se stessa, dando pieno corso alla sua autentica
vocazione, col divenire madre e sposa. Certo, nella concezione di
Berneri queste due figure hanno ben poco a che vedere con la
precedente famiglia patriarcale, però in questa posizione
tradizionalistica egli non va molto più avanti delle retrive
indicazioni proudhoniane. Come Proudhon, Berneri motiva le sue
proposte ricordando che la famiglia è un baluardo contro la
massificazione della società statolatra e che progettare la sua
abolizione (programma che egli giudica "mostruoso"), significa
annientare l'educazione umana.
La convergenza
dei totalitarismi
Come si vede, la
questione elettorale era naturalmente un modo indiretto di agitare la
questione politica del "male minore". A sua volta essa
implicava quella del protagonismo anarchico e degli impliciti
rapporti di potere con le altre forze in campo. Prima di tutto con le
più avverse: il comunismo e il fascismo. Si trattava di comprendere
la loro natura in rapporto a quella dell'anarchismo. Il fascismo, a
giudizio di Berneri, è stato "l'arma della borghesia". Ciò è
dimostrato dal fatto che per istituzionalizzarsi come potere ha
rinunciato all'iniziale programma "rivoluzionario". Il
fascismo non è, come scrive Croce, una rottura rispetto al
precedente regime monarchico-costituzionale. Lo dimostra la sua
inquisizione giudiziaria e poliziesca che si riallaccia, senza
rotture, "ai sistemi e modi pseudo-costituzionali dei passati
regimi". Vi è dunque, per Berneri, una continuità tra l'Italia
liberale e l'Italia fascista. Il giudizio che egli dà su Giolitti e
la sua politica è, a questo proposito, illuminante. Berneri
comprende il senso della mediazione dello statista piemontese, ma non
riesce a storicizzarne fino in fondo tutto il significato politico.
Egli individua nel giolittismo il tentativo di "compromesso tra il
reazionarismo e il liberalismo", tra lo Stato e il movimento
operaio, così come intuisce le necessità storiche che portano
Giolitti al potere; coglie, infine, il rapporto speculare tra
Giolitti e il socialismo riformista (Giolitti: il "Pio IX"
del socialismo, Giolitti: "vero segretario del partito
socialista"). Però, demonizzando oltre misura il gioco della
mediazione fino a vederne un machiavellismo, non comprende la
tragedia del liberalismo, non capisce cioè che questa mediazione era
il frutto di una debolezza e non di una forza. Berneri denuncia
giustamente lo statista piemontese quale "balio del fascismo",
quale apprendista stregone che credette, col fascismo, prima di
servirsene e poi di liquidarlo, ma non afferra il senso della
strumentalizzazione giolittiana che non era una scelta, ma una
tragica necessità. Tutto questo dimostra che l'anarchico italiano fu
lontano dal capire la natura socioeconomica del potere nato nel 1922.
Tuttavia, quando analizza il regime sotto il profilo della psicologia
e della mobilitazione politica delle masse, evidenzia completamente
la differenza che separa tale regime dalla democrazia liberale. È
qui che viene colta la peculiarità del totalitarismo: la sua
capacità demagogica, quel "trionfo dell'irrazionale",
quell'"eclisse completa dell'intelligenza" che caratterizza
nazismo e fascismo, come è dimostrato, ad esempio, dalla
"psicosi collettiva" del mito ariano. Qui, insomma, Berneri va
al cuore del problema: il fascismo e il nazismo sono regimi
reazionari di massa la cui base culturale è data da una sorta di
"romanticismo sanfedista". Per cui la violenza e
l'indiscriminato autoritarismo di cui sono pervasi non possono essere
imputati alla classe capitalistico-borghese. Il mito dell'impero, la
mistica nazionalsocialista, il delirio razzista, documentano una
follia collettiva. È
"tutta la Germania che sta delirando", è gran parte
dell'Italia che si riflette nella biografia del duce. L'identità tra
masse e totalitarismo vale in sostanza pure per il comunismo, anche
se questo nasce da un'onda rivoluzionaria. La natura del comunismo si
ricava per Berneri leggendo senza sottigliezze metafisiche
l'effettività storica dello stalinismo, approdo del tutto logico del
leninismo: "Lo stalinismo non è che la risultante
dell'impostazione leninistica del problema politico della rivoluzione
sociale. Scagliarsi contro gli effetti senza risalire alle cause, al
peccato originale del bolscevismo (dittatura burocratica in funzione
di dittatura del partito) vale semplificare arbitrariamente la catena
casuale che dalla dittatura di Lenin giunge a quella di Stalin senza
profonde soluzioni di continuità". A sua volta il leninismo è
la soluzione inevitabile del marxismo perché la sua posizione di
fronte allo Stato coincide "esattamente con quella assunta da
Marx e da Engels, quando si interpreti lo spirito degli scritti di
questi ultimi senza lasciarsi ingannare dall'equivocità di certe
formule". È vero che il socialismo marxista si presenta alle sue
origini come una dottrina non statolatra, però essa va giudicata
sulla base dei suoi risultati reali. Questi sono dati dal socialismo
realizzato in Russia dove "abbiamo un'oligarchia dittatoriale".
L'Ufficio Politico del Comitato Centrale domina il partito comunista
russo che a sua volta domina l'URSS. E questo perché chi dice "Stato
proletario" dice "capitalismo di Stato", chi dice
"dittatura del proletariato" dice "dittatura del
partito comunista". Con l'individuare
nell'URSS un "capitalismo di Stato", Berneri dimostrava di non
aver compreso appieno la natura socioeconomica dello Stato
totalitario, fondato, nel caso del bolscevismo, sulla
tecnoburocrazia. Va detto comunque che egli individua l'essenziale
del potere comunista. Questo nasce dalla dittatura del partito
legittimata dalla dittatura del proletariato. Tale originario
concetto marxista è "formula d'imperialismo classista"
perché si basa sulla pretesa funzione liberatrice della lotta di
classe. Mentre, in pratica, questa lotta si risolve in una realtà
corporativa la quale genera il mito nefasto dell'operaiolatria, a sua
volta idoneo strumento demagogico dei capi rivoluzionari. Vi è
pertanto una stretta correlazione tra la mitizzazione della classe e
la mitizzazione del suo interprete: il partito. Ne risulta così
un'analogia fra il totalitarismo fascista e quello comunista. Come il
mito della razza unifica in chiave nazionale il nazismo, perché
porta tutti i tedeschi su un piano di uguaglianza - mentre nel
contempo li rende diseguali rispetto agli altri popoli (di qui un
inevitabile imperialismo) -, così il mito della classe unifica in
chiave internazionale il comunismo con la conseguenza che "sul
piano classista (vengono riprodotte) quelle generalizzazioni che nel
campo nazionalista hanno nome xenofobia". In entrambi i casi siamo
di fronte ad una riduzione-generalizzazione, vera fonte vitale della
demagogia totalitaria. È
questa demagogia, dunque, la chiave di spiegazione della nuova realtà
storica. Essa è data dal
fatto che la caratteristica dei regimi reazionari di destra è comune
anche ai regimi rivoluzionari di sinistra. Il comunismo si ritrova
nello stesso piano demagogico proprio in rapporto alla psicosi
collettiva dovuta all'emergenza storica della politicizzazione delle
masse. Questo protagonismo ha portato gli operai e i contadini nella
trincea della rivoluzione sociale, ma va riconosciuto che la
mobilitazione degli oppressi non è stata altro che l'effetto
distorto della demagogia tribunizia dei loro capi,
dell'irresponsabile esaltazione che questi hanno fatto di una pretesa
capacità rivoluzionaria del popolo fino ad istituire con esso un
perverso rapporto gregaristico-autoritario. Ad un anno dalla presa
fascista del potere, Berneri aveva già scritto con grande lucidità:
"I capi, per dominarla, servirono la massa". Le masse si
sono dunque politicizzate, tuttavia è aumentata contemporaneamente
la loro ricettività demagogica. Il risultato di tale commistione è
stato, per l'appunto, il fascismo/comunismo: "che grandi masse
proletarie siano passate dalle bandiere rosse ai gagliardetti neri è
un fatto che dimostra, indiscutibilmente, l'impreparazione politica
della classe operaia. Soprattutto dimostra che l'origine comune del
fascismo e del comunismo viene da una equivalenza dovuta alla comune
mobilitazione demagogica delle masse: "Mussolini è duce perché si
gridava: Verrà Lenin. La fiducia nel liberatore crea il tiranno".
A metà degli anni '30 la convergenza è ormai indiscutibile. I
militanti bolscevichi e i militanti nazisti usano uguali tecniche di
propaganda, la politica estera di Mosca è di fatto confluente con
quella di Berlino, la Terza Internazionale ha tradito quella
rivoluzione mondiale per la quale era nata, portando il movimento
operaio alla disfatta. Inoltre fascismo e comunismo partecipano
entrambi di un mito: "il feticcio statolatra" perché
l'economia corporativa non è in sostanza tanto lontana dalla
pianificazione sovietica. Ma soprattutto ciò che accomuna fascismo e
comunismo è la negazione radicale dell'individuo. Peculiarità del
totalitarismo significa infatti identificazione in un tutto
onnipervasivo, vale a dire il predominio assoluto di un'entità
collettiva sia che essa assuma le vesti della "classe", sia
quelle della "razza". L'esempio più aberrante, ma anche
più significativo, è rintracciabile nel rifiuto che alcuni ebrei
fanno di seacute; stessi sotto l'incalzare della propaganda razziale. Il
fenomeno dell'ebreo antisemita è spiegato in base ad un complesso di
inferiorità che cerca di sfuggire a se stesso con una rimozione. La
resistenza a questa protesta genera l'odio antisemita. L'amore di ciò
che si vorrebbe essere (amore nato dal disprezzo di se stessi)
determina l'odio verso ciò che si è. Ma poiché non si ha odio
verso se stessi, si arriva ad odiare coloro che sono ciò che non si
vorrebbe essere". È interessante
osservare come l'utilizzazione di categorie psicologiche permetta a
Berneri di elaborare un modello interpretativo che va oltre il fatto
specifico. La negazione di se stessi, attraverso una identificazione
collettiva, è un tipico processo mentale prodotto dalla forma
totalitaria, comune anche al comunismo. Possiamo così assistere ad
effetti opposti, collaterali o diversi. Basti pensare a quello che
avverrà qualche anno dopo con i processi di Mosca, dove avremo
imputati che confessano colpe inesistenti e che riterranno giusto ciò
che lo Stato-partito infliggerà loro!
Il destino
storico dell'anarchismo
L'esperienza
spagnola, pur riassumendo i temi fondamentali della riflessione di
Berneri, non può esaurirne il significato ultimo. Infatti per
l'anarchico italiano il vero problema è quello della fine di una
forma storica dell'anarchismo (l'anarchismo socialista e operaio) e
della effettiva assenza, negli anni '30, di una reale alternativa che
non sia quella dell'anarcosindacalismo rimasto vivo, egemone e
determinante proprio solo in Spagna. Per cui dietro il problema della
crisi della forma storica stava il problema, decisivo, dell'essenza
dell'anarchismo stesso. L'anarchismo era effettivamente tutto
rinchiudibile nel movimento anarchico, vale a dire tutto riassumibile
nella sua forma politica? È
questo l'implicito interrogativo che egli si pone a mano a mano che
registra le progressive sconfitte del movimento libertario in Italia,
Stati Uniti, Francia, Argentina, Brasile, sconfitte che sono
accompagnate dall'onda vincente della marea totalitaria. Nel momento
magico del "biennio rosso" può scrivere ottimisticamente
che gli anarchici rappresentano "una forza considerevole"
lontana quindi da ogni disfacimento. Già due anni dopo ammette però
che "il movimento anarchico è ancora in uno stato di
infantilismo politico e di confusione morale". Nel 1924 lo
stesso movimento gli appare una forza politica "sui margini
della storia", e nel 1930 trova consolazione nell'idea che
"tutti i movimenti e i partiti sono in crisi", per cui non c'è
da disperare se anche gli anarchici lo sono. Nello stesso tempo però
si domanda se la sua personale attività politica "non sia un
rimestare senza costrutto nelle foglie secche di un'ideologia al suo
tramonto". Il fatto è che
Berneri alterna questi giudizi perché recepisce in pieno il problema
della scleroticità politica del movimento anarchico in quanto
espressione ingenua di una concezione sociale che nei fatti è già
superata. Ancora prigioniero di una immagine della realtà ormai in
declino - come aveva già denunciato fin dal 1926 -, l'anarchismo non
sa trovare una nuova veste politica a quella sua dimensione
"universale" frutto del processo storico della convergenza
dei totalitarismi. E tutto ciò proprio nel momento in cui l'intera
situazione mondiale sembra dare conferma dei valori e degli
insegnamenti etici dell'anarchismo stesso. Si tratta di una
situazione paradossale dovuta alla civiltà di massa. Questa
testimonia una partecipazione popolare effettiva, anche se male
incanalata, per cui si può dire che comunque "la nostra è
un'epoca di "maturità", cioè di sviluppo e di
rivoluzione" tuttavia il prezzo che si è pagato è stato che
questi "nostri tempi" se non hanno interamente ucciso
l'eroismo, "stanno uccidendo la santità". Nel linguaggio di
Berneri tutto ciò significa che in prospettiva sarà sempre più
difficile che vi sia uno spazio storico per un movimento come
l'anarchismo che fa dell'azione politica un modo per agitare la
questione etica. Berneri arriva così alla soglia della domanda
fondamentale: quale è la causa della crisi dell'anarchismo? Sappiamo
che la domanda rimase senza risposta. Emblematicamente senza
risposta, perché gli fu impedito di rispondere: lo uccise quella
convergenza del comunismo/fascismo che egli aveva individuato
rapportandola alla crisi del movimento anarchico, nel momento
dell'avvento della piena maturità umanistica dell'anarchismo.
Lodi 1897 / Barcellona 1937
Nato a Lodi nel 1897, Camillo Berneri trascorre la sua giovinezza a Reggio Emilia. Aderisce giovanissimo alla Federazione Giovanile Socialista, diventandone segretario cittadino. Nel 1915, dopo lunghe chiacchierate con l'operaio anarchico Torquato Gobbi, rassegna le dimissioni nelle mani di Camillo Prampolini e aderisce al movimento anarchico. Durante i tre anni del servizio militare, svolge un'intensa attività antimilitarista. Espulso dalla Scuola Militare di Modena come "sovversivo", viene condotto sotto scorta al fronte. Viene denunciato due volte al Tribunale di guerra. Durante lo sciopero generale del luglio 1919 viene confinato sull'isola di Pianosa. L'anno successivo partecipa all'occupazione delle fabbriche. Come membro di una speciale commissione costituita dall'Unione Anarchica Fiorentina, si impegna nell'attività di risposta alle violenze delle squadracce fasciste. Laureatosi in filosofia all'Università di Firenze, allievo particolarmente caro a Gaetano Salvemini, Berneri insegna in varie città italiane. Collabora alla stampa anarchica e ad altre testate, tra cui Rivoluzione liberale di Piero Gobetti. Ma il consolidarsi del regime fascista ed in particolare il "cordone di sicurezza" strettogli intorno dalle camicie nere spingono Berneri, nell'aprile '26, a prendere la strada dell'esilio. Ha 29 anni. Non vi farà più ritorno. Per gli anarchici militanti, invisi a tutti gli Stati, nemmeno l'esilio assicura un po' di tregua. Dalla Francia Berneri viene espulso, dal Belgio anche: pur tra mille difficoltà (non ultima, l'insidiosa attività delle spie e dei provocatori fascisti), prosegue il suo impegno di propaganda e di lotta. Suoi articoli appaiono su diversi fogli anarchici, tra i quali L'Adunata dei refrattari (che esce regolarmente negli Stati Uniti). Allo scoppio - luglio '36 - della rivoluzione spagnola, glil anarchici italiani sono tra i primi ad accorrere a Barcellona. Tra loro, anche Berneri. Della Colonna Italiana che subito si forma e parte per il fronte, Berneri è delegato politico. Partecipa alla battaglia di Monte Pelato. Rientra a Barcellona, dove è l'elemento di punta non solo degli anarchici di lingua italiana, ma un po' di tutti i settori più "intransigenti" dell'anarchismo internazionale. Fonda un giornale, Guerra di classe, dalle cui colonne denuncia le manovre ed il ruolo dei comunisti succubi di Stalin e del Comintern. Polemizza anche con la tendenza "ministerialista" dell'anarchismo spagnolo. Difende il POUM, un piccolo ma combattivo partito di matrice marxista ma ostile a Stalin, dalla campagna di calunnie orchestrate da Mosca. Alla prima occasione buona, i comunisti gliela fanno pagare. Nel corso delle "giornate di maggio" (1937), che vedono la tensione alle stelle ed anche pesanti scontri armati tra comunisti ed anarchici sulle strade di Barcellona, Berneri - insieme ad un altro anarchico italiano, Francesco Barbieri - viene prelevato in casa da agenti in borghese ed in divisa al soldo della staliniana GPU (la famigerata polizia politica). Il suo corpo, trafitto da colpi d'arma da fuoco, viene raccolto più tardi dalla Croce Rossa sulla piazza della Generalità. È il 5 maggio 1937.
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