Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 147
giugno 1987


Rivista Anarchica Online

Un anarchico scomodo
di Nico Berti

Assassinato a soli 40 anni da agenti staliniani, pur avendo trascorso gran parte della sua vita adulta tra persecuzioni, povertà, esilio ed espulsioni, Camillo Berneri è stata una delle figure più incisive e ancor oggi stimolanti, nel panorama dell'anarchismo internazionale. In queste pagine (tratte dal suo saggio pubblicato nel volume commemorativo del cinquantenario della morte di Berneri, edito dall'Archivio Famiglia Berneri di Pistoia) lo storico Nico Berti esamina alcuni aspetti del pensiero berneriano e ne evidenzia i numerosi spunti d'attualità.

Il problema del revisionismo
"Quello che è certo è che sono un anarchico sui generis, tollerato dai compagni per la mia attività, ma capito e seguito da pochissimi. I dissensi vertono su questi punti: la generalità degli anarchici è atea e io sono agnostico, è comunista e io sono liberalista (cioè sono per la libera concorrenza tra lavoro e commercio cooperativi e lavoro e commercio individuali); è antiautoritaria in modo individualista ed io sono semplicemente autonomista federalista (Cattaneo completato da Salvemini e dal sovietismo)". Quando Camillo Berneri scriveva queste righe al repubblicano Libero Battistelli alla fine degli anni '20, la sua revisione ideologica era arrivata a maturazione.
Era stata, la sua, una tormentata riflessione che lo aveva portato nel movimento anarchico ad una posizione di isolamento, come egli stesso puntualizzava qualche anno dopo riconoscendo, in una lettera a Luigi Fabbri, che "non ci posso niente, in questo mio non trovarmi d'accordo con quasi nessuno".
Eppure Camillo Berneri non avrebbe certo potuto affermare di non essere stato pazientemente letto ed ascoltato in sede internazionale, dal momento che i suoi scritti erano stati ospitati con grande liberalità e tolleranza dai maggiori periodici anarchici di mezzo mondo, da Roma a New York, da Londra a Parigi, da Ginevra a Buenos Aires, da Bruxelles a Barcellona, da Montevideo a Chicago. Cosa rendeva difficile, allora, questa audience? Il fatto è che il suo interrogarsi, pur volendo essere una semplice revisione metodologica ("Il mio "revisionismo" è una piccola riforma del metodo e verte sullo stile della propaganda più che sui principi"), si presentava invece il più delle volte come un ripensamento generale sui principi. Ed era egli stesso ad alimentare questa convinzione creando molti equivoci ed incomprensioni. Nel pieno della sua polemica sull'astensionismo elettorale scriveva: "Un anarchico non può che detestare i sistemi ideologici chiusi (teorie che si chiamano dottrine) e non può che dare ai principi un valore relativo". A suo dire, del resto, tutta la storia del pensiero anarchico era stata una storia di eresia. Bakunin aveva rivisto Proudhon, Kropotkin aveva rivisto Bakunin, Malatesta aveva rivisto Kropotkin: "L'eresia stessa non è, nel campo nostro, che la cristallizzazione del revisionismo". Logico, quindi, che il richiamo ai principi lo lasciasse indifferente.
In tutti i casi, in lui è rappresentato il primo autentico momento in cui l'anarchismo si interroga criticamente su se stesso, e si interroga in un momento cruciale della sua storia. Nei vent'anni decisivi che corrono dalla rivoluzione russa alla rivoluzione spagnola giunge infatti a maturazione l'intero ciclo storico iniziato nel 1872, un ciclo che aveva visto il movimento anarchico come parte integrante del movimento operaio e socialista. Nella figura e nell'opera di Camillo Berneri sono dunque riflessi, nel modo più evidente e lacerante, i temi, i problemi e le improrogabili scelte dell'anarchismo nell'età che segna la fine del regime liberale della vecchia Europa. Dal 1917 al 1937 Berneri vive la drammatica consapevolezza del progressivo esaurirsi del movimento anarchico come movimento nato nel solco del socialismo rivoluzionario della Prima Internazionale. Quella di Berneri è un'esemplare parabola che trova nella sua tragica morte l'approdo più eloquente ed emblematico.
Egli è un'inquieta, persistente e impertinente domanda posta nel cuore e nel cervello del movimento anarchico italiano e internazionale. Quale è il ruolo dell'anarchismo dopo la vittoriosa rivoluzione d'ottobre? Che posizione devono prendere gli anarchici di fronte all'avvento dei regimi totalitari? Ha ancora senso il rifiuto categorico della dialettica politica dopo i decenni infruttuosi dell'attesa rivoluzionaria? È vero che l'anarchismo muore se si media con l'esistente? Gli schemi sociologici del vecchio patrimonio scientifico sono capaci di rispondere alle domande poste dal mutamento strutturale avviato dai nuovi assetti socioeconomici? L'anarchismo, per essere anarchismo, deve rimanere ancorato ad un orizzonte filosoficamente materialistico? L'anarchismo, cosa significa essere anarchici dopo la svolta epocale della psicanalisi? Cosa è l'anarchismo, oltre ad essere un'ideologia politica?
La tormentata riflessione di Berneri è segnata dall'intrecciato, caotico, tumultuoso susseguirsi di queste e molte altre domande poiché il suo anarchismo altro non è che il problema della revisione dell'anarchismo stesso (una revisione che oggi, per certi versi, potremmo rapportare ad un ripensamento generale sulla natura del potere). Caotica e tumultuosa riflessione dal momento che egli non svolge il suo pensiero a tavolino, ma nel fuoco incrociato della battaglia, per di più da una posizione di prima linea. Berneri è un intellettuale anarchico militante; pertanto lo sviluppo del suo pensiero risente, nel bene e nel male, della coniugazione di queste due dimensioni.
Ora noi vogliamo vedere in che senso e fino a che punto la riflessione berneriana si è spinta nel processo di revisione. Vogliamo capire se si tratta di lucida revisione o di sentimentali inquietudini e cosa significa, comunque, tutto questo per la storia dell'anarchismo. A tale scopo non possiamo distinguere nella sua opera la riflessione teorica dall'azione pratica. In lui inoltre, come in ogni anarchico, risulta altrettanto impossibile dividere la fede ideologica dalla ragione perché è sotto la stretta interdipendenza tra etica e politica che si svolge la sua intera militanza. Nel 1916 motiva la sua uscita dal partito socialista affermando che occorre amare un'idea fino a sacrificarle "tutta la vita in una dedizione completa perché la causa dei popoli è come quella della religione: non trionfa che per le virtù dei martiri"; nel 1937, alla vigilia del suo assassinio da parte dei comunisti, scrive alla figlia: "Che cosa sarebbe l'uomo senza questo senso del dovere, senza questa commozione di sentirsi unito a coloro che furono, ai lontani ignoti, e ai venturi?". "Ci si può disilludere su tutto e su tutti, ma non su quello che si afferma con la coscienza morale". La militanza di Berneri va sotto il segno di uno spiritualismo rivoluzionario.

Contro l'unicismo dottrinario
Non si intende il senso della polemica berneriana verso ogni forma di unicismo dottrinario se non la si inquadra nel clima del dopoguerra. Il rivolgimento scaturito dalla catastrofe bellica con il suo emergere di forze irrazionali in uno scacchiere politico e sociale fino a pochi anni prima imprevedibile, mette Berneri in una posizione molto lontana dalla tradizione positivista e materialista della precedente cultura anarchica. Scriverà nel 1935 a conferma di questa svolta: "Quello che vi è di morto nella tradizione attuale dell'anarchismo non sono che i residui del materialismo socialista e del nazionalismo borghese". Egli avverte insomma l'esigenza di rispondere alla sfida che sale dalle forze sprigionate dalla caduta della vecchia Europa che in Italia si manifestano o nel protagonismo delle masse operaie e contadine, enfatizzato dall'estremismo demagogico dei capi rivoluzionari, o nei torbidi propositi irrazionali di segno ultra individualistico ed estetizzante. Questi due versanti influenzano le ali opposte del movimento anarchico, quella comunista e quella individualista, ed è quindi necessario a suo giudizio un'opera di riequilibrio.
Contro gli individualisti, che assolutizzano il concetto di libertà individuale, Berneri recupera il lascito etico del socialismo umanitario trasmessogli dal suo primo maestro Camillo Prampolini. Egli attacca le rivendicazioni della libertà assoluta, sia sotto la mitizzazione giusnaturalistica, sia sotto la più agguerrita propensione nietzschiana e stirneriana ("La concezione etica e sociale del Nietzsche è antisocialista. E ancor più è in antitesi con l'anarchismo"). A giudizio di Berneri una semplificazione ideologica di queste filosofie porta ad un irresponsabile immoralismo privo di ogni senso della realtà. Egli rivendica per contro sul piano morale l'imperativo categorico kantiano mentre, contemporaneamente, è attento alla lezione della scuola storicistica. Si vede qui il tentativo di recuperare in chiave positiva gli insegnamenti bakuniniani, particolarmente per quanto attiene alla polemica contro Rousseau, e, ancor più, di attualizzare la dialettica antinomica di Proudhon. Berneri ricorda infatti che la libertà non si dà che in un continuo e inscindibile rapporto con le condizioni poste dalla necessità.
Certo, la libertà è senza dubbio tensione e sforzo individuale, ma è anche scienza dei nessi che legano e piegano l'azione umana entro un contesto storico determinato. Nel pensiero di Berneri confluiscono dunque allo stesso tempo una concezione illuministica ("la libertà è il potere di obbedire alla ragione"), ed una più moderna concezione relativistica (la relatività è "la base del concetto di libertà"). Se necessità e libertà sono costitutivi del farsi stesso della libertà, che cosa dunque sostanzia specificamente l'anarchismo? "Una migliore concezione dell'autorità", vale a dire il fatto che l'anarchismo è precisamente quella dottrina morale e quella scienza sociale che più di qualsiasi altra sa, per l'appunto, ridurre l'autorità nei limiti della necessità. Ne deriva una visione dell'anarchia che sul piano della dimensione politica inclina decisamente verso il liberalismo. Berneri afferma senza indugio che la società anarchica non può essere "la società dell'armonia assoluta, ma la società della tolleranza".
Ma la critica dell'individualismo non si accompagna affatto ad una svalorizzazione della tensione ideale che motiva l'azione dei singoli e delle minoranze rivoluzionarie. Se rispetto al concorrente individualista Berneri fa ricorso ad una scienza sociale intrisa di materialismo storico e di realismo sociologico, nei confronti della corrente comunista rivendica il valore irriducibile della volontà soggettiva e dello spiritualismo rivoluzionario. Per Berneri il comunismo anarchico non si risolve in uno spontaneismo sociale, come vorrebbero i suoi seguaci, ma in un deteriore determinismo scientifico. Non sono le masse a determinare la trasformazione sociale, ma le minoranze rivoluzionarie a cui è assegnato un "compito eroico" perché "il genio della rivoluzione non è genio di maggioranze, ma di minoranze fattive". Di conseguenza non è possibile rinchiudersi "in una determinista o gradualista concezione storica, nella quale non ci sia posto per l'audacia, del pensiero o dell'azione, del singolo e dei pochi".
Si vede così come Berneri si trovi tra i due fuochi del realismo oggettivistico e del soggettivismo idealista, come si intitola proprio un suo saggio. Riconosce con gli individualisti il ruolo propulsivo delle minoranze agenti, il valore decisivo dell'azione individuale nel maturamento storico; però è restio ad enfatizzare oltre misura il ruolo "eroico" dei singoli perché questa enfatizzazione è propedeutica alla cultura della gerarchia e del dominio. La conclusione è quindi questa: l'anarchismo non può identificarsi in uno sterile e astratto individualismo; non può nemmeno, però, risolversi in un populismo demagogico. In questa posizione di "centro" si rivela lo sforzo e il significato della problematizzazione berneriana dell'anarchismo. Sulla scia dell'insegnamento salveminiano, essa vuole infatti sviluppare un criterio metodologico che faccia, per l'appunto, del problemismo l'antidoto contro ogni unicismo e contro ogni semplificazione.

L'autonomia della morale
Il relativismo problematico non vale solo sul piano ideologico, ma anche su quello filosofico-morale. In questo campo infatti si svolge la polemica di Berneri contro l'ateismo assoluto da un lato e dall'altro contro lo stereotipo positivista tendente a risolvere il problema etico come problema di una scienza dei costumi. Egli non accetta la soluzione di Kropotkin che, a suo avviso, "sviluppatasi sul terreno naturalistico ed etnografico, confuse l'armonia di necessità biologica delle api con quella discordia discors e quella concordia concors propria dell'aggregato sociale". In questo rifiuto della soluzione kropotkiniana, considerata ingenua e semplicista, è possibile misurare tutto il distacco che separa la riflessione di Berneri dal vecchio patrimonio ideologico fondato in gran parte sul lascito materialista e positivista. Con ciò si tocca uno dei punti più alti della sua revisione, dal momento che l'abbandono dello spontaneismo comunistico e kropotkiniano (che giustamente egli considera una forma paradossale di assolutismo) implica una riconsiderazione della questione etica.
Questa non può più essere pensata come una variabile del problema sociale secondo il vecchio teorema socialista per cui la soluzione dell'uno comporta automaticamente anche la soluzione dell'altra. A suo giudizio la questione etica ha una fondazione autonoma. Volendola compendiare proprio con le parole del più grande positivista italiano, essa "è formazione storica, processo educativo; ma è anche principio assoluto". Per Berneri il contesto storico dà la forma sociale della morale, ma l'istanza che emerge in ogni luogo e tempo testimonia la sua universalità, conferma la sua "irriducibile autonomia". Tutto ciò deve far riflettere e deve portare l'anarchismo a riconsiderare l'intero problema religioso, dal momento che la religione è proprio la risposta più ovvia a questo insopprimibile bisogno. Esiste dunque, per Berneri, una effettiva impossibilità di arrivare ad un nichilismo puro e assoluto.
Abbiamo così, con queste riflessioni, la prima autentica inquietudine nel campo anarchico rispetto al più generale problema della secolarizzazione. Per Berneri un ateismo assoluto si traduce in un teismo rovesciato con l'ovvia conseguenza che l'immanentizzazione del divino sfocia in un dogmatismo totalitario o in un compromesso utilitaristico di cattivo valore educativo. La propaganda atea tesa a dimostrare l'inesistenza di Dio rivela tutti i suoi "vecchiumi materialistici". Occorre abbandonare l'anticlericalismo quale forma di antireligiosità. È altresì importante sviluppare una specifica sensibilità verso le nuove forze spirituali, anche se queste si manifestano nell'ambito della Chiesa cattolica, come è il caso, ad esempio, del Partito Popolare. Necessita infine una riconsiderazione della religione capace di superare la riduzione positivistica tendente a porre lo spirito religioso come infanzia dello spirito umano. Da tutto questo Berneri ricava una conclusione lapidaria: "Non sono ateo, bensì agnostico".
Anche rispetto all'emancipazione femminile, l'anarchico italiano prende una posizione molto lontana dalla comune visione libertaria. Egli ritiene immorali le concezioni edonistiche che esaltano l'eroticità della femmina a scapito della dignità della donna. A suo giudizio un edonismo fine a se stesso riflette una alienante concezione nichilista della vita, mentre bisogna considerare il problema femminile in tutta la sua inevitabile complessità. Per Berneri risulta pertanto arbitrario valutare la donna e il suo posto nella società prescindendo dalla sua effettiva dimensione di madre. A suo giudizio la sessualità femminile non è funzionale a se stessa perché è in rapporto alla procreazione. Essa non può essere pervasa da quel vitalismo che si ritrova invece nel maschio. Nella donna la sessualità risulta sempre accompagnata dal sentimento materno per cui ne deriva che l'emancipazione femminile trova la sua vera e naturale collocazione nell'ambito della famiglia. La donna realizza veramente se stessa, dando pieno corso alla sua autentica vocazione, col divenire madre e sposa. Certo, nella concezione di Berneri queste due figure hanno ben poco a che vedere con la precedente famiglia patriarcale, però in questa posizione tradizionalistica egli non va molto più avanti delle retrive indicazioni proudhoniane. Come Proudhon, Berneri motiva le sue proposte ricordando che la famiglia è un baluardo contro la massificazione della società statolatra e che progettare la sua abolizione (programma che egli giudica "mostruoso"), significa annientare l'educazione umana.

La convergenza dei totalitarismi
Come si vede, la questione elettorale era naturalmente un modo indiretto di agitare la questione politica del "male minore". A sua volta essa implicava quella del protagonismo anarchico e degli impliciti rapporti di potere con le altre forze in campo. Prima di tutto con le più avverse: il comunismo e il fascismo. Si trattava di comprendere la loro natura in rapporto a quella dell'anarchismo.
Il fascismo, a giudizio di Berneri, è stato "l'arma della borghesia". Ciò è dimostrato dal fatto che per istituzionalizzarsi come potere ha rinunciato all'iniziale programma "rivoluzionario". Il fascismo non è, come scrive Croce, una rottura rispetto al precedente regime monarchico-costituzionale. Lo dimostra la sua inquisizione giudiziaria e poliziesca che si riallaccia, senza rotture, "ai sistemi e modi pseudo-costituzionali dei passati regimi". Vi è dunque, per Berneri, una continuità tra l'Italia liberale e l'Italia fascista. Il giudizio che egli dà su Giolitti e la sua politica è, a questo proposito, illuminante. Berneri comprende il senso della mediazione dello statista piemontese, ma non riesce a storicizzarne fino in fondo tutto il significato politico. Egli individua nel giolittismo il tentativo di "compromesso tra il reazionarismo e il liberalismo", tra lo Stato e il movimento operaio, così come intuisce le necessità storiche che portano Giolitti al potere; coglie, infine, il rapporto speculare tra Giolitti e il socialismo riformista (Giolitti: il "Pio IX" del socialismo, Giolitti: "vero segretario del partito socialista"). Però, demonizzando oltre misura il gioco della mediazione fino a vederne un machiavellismo, non comprende la tragedia del liberalismo, non capisce cioè che questa mediazione era il frutto di una debolezza e non di una forza. Berneri denuncia giustamente lo statista piemontese quale "balio del fascismo", quale apprendista stregone che credette, col fascismo, prima di servirsene e poi di liquidarlo, ma non afferra il senso della strumentalizzazione giolittiana che non era una scelta, ma una tragica necessità. Tutto questo dimostra che l'anarchico italiano fu lontano dal capire la natura socioeconomica del potere nato nel 1922. Tuttavia, quando analizza il regime sotto il profilo della psicologia e della mobilitazione politica delle masse, evidenzia completamente la differenza che separa tale regime dalla democrazia liberale.
È qui che viene colta la peculiarità del totalitarismo: la sua capacità demagogica, quel "trionfo dell'irrazionale", quell'"eclisse completa dell'intelligenza" che caratterizza nazismo e fascismo, come è dimostrato, ad esempio, dalla "psicosi collettiva" del mito ariano. Qui, insomma, Berneri va al cuore del problema: il fascismo e il nazismo sono regimi reazionari di massa la cui base culturale è data da una sorta di "romanticismo sanfedista". Per cui la violenza e l'indiscriminato autoritarismo di cui sono pervasi non possono essere imputati alla classe capitalistico-borghese. Il mito dell'impero, la mistica nazionalsocialista, il delirio razzista, documentano una follia collettiva. È "tutta la Germania che sta delirando", è gran parte dell'Italia che si riflette nella biografia del duce.
L'identità tra masse e totalitarismo vale in sostanza pure per il comunismo, anche se questo nasce da un'onda rivoluzionaria. La natura del comunismo si ricava per Berneri leggendo senza sottigliezze metafisiche l'effettività storica dello stalinismo, approdo del tutto logico del leninismo: "Lo stalinismo non è che la risultante dell'impostazione leninistica del problema politico della rivoluzione sociale. Scagliarsi contro gli effetti senza risalire alle cause, al peccato originale del bolscevismo (dittatura burocratica in funzione di dittatura del partito) vale semplificare arbitrariamente la catena casuale che dalla dittatura di Lenin giunge a quella di Stalin senza profonde soluzioni di continuità". A sua volta il leninismo è la soluzione inevitabile del marxismo perché la sua posizione di fronte allo Stato coincide "esattamente con quella assunta da Marx e da Engels, quando si interpreti lo spirito degli scritti di questi ultimi senza lasciarsi ingannare dall'equivocità di certe formule". È vero che il socialismo marxista si presenta alle sue origini come una dottrina non statolatra, però essa va giudicata sulla base dei suoi risultati reali. Questi sono dati dal socialismo realizzato in Russia dove "abbiamo un'oligarchia dittatoriale". L'Ufficio Politico del Comitato Centrale domina il partito comunista russo che a sua volta domina l'URSS. E questo perché chi dice "Stato proletario" dice "capitalismo di Stato", chi dice "dittatura del proletariato" dice "dittatura del partito comunista".
Con l'individuare nell'URSS un "capitalismo di Stato", Berneri dimostrava di non aver compreso appieno la natura socioeconomica dello Stato totalitario, fondato, nel caso del bolscevismo, sulla tecnoburocrazia. Va detto comunque che egli individua l'essenziale del potere comunista. Questo nasce dalla dittatura del partito legittimata dalla dittatura del proletariato. Tale originario concetto marxista è "formula d'imperialismo classista" perché si basa sulla pretesa funzione liberatrice della lotta di classe. Mentre, in pratica, questa lotta si risolve in una realtà corporativa la quale genera il mito nefasto dell'operaiolatria, a sua volta idoneo strumento demagogico dei capi rivoluzionari. Vi è pertanto una stretta correlazione tra la mitizzazione della classe e la mitizzazione del suo interprete: il partito.
Ne risulta così un'analogia fra il totalitarismo fascista e quello comunista. Come il mito della razza unifica in chiave nazionale il nazismo, perché porta tutti i tedeschi su un piano di uguaglianza - mentre nel contempo li rende diseguali rispetto agli altri popoli (di qui un inevitabile imperialismo) -, così il mito della classe unifica in chiave internazionale il comunismo con la conseguenza che "sul piano classista (vengono riprodotte) quelle generalizzazioni che nel campo nazionalista hanno nome xenofobia". In entrambi i casi siamo di fronte ad una riduzione-generalizzazione, vera fonte vitale della demagogia totalitaria. È questa demagogia, dunque, la chiave di spiegazione della nuova realtà storica.
Essa è data dal fatto che la caratteristica dei regimi reazionari di destra è comune anche ai regimi rivoluzionari di sinistra. Il comunismo si ritrova nello stesso piano demagogico proprio in rapporto alla psicosi collettiva dovuta all'emergenza storica della politicizzazione delle masse. Questo protagonismo ha portato gli operai e i contadini nella trincea della rivoluzione sociale, ma va riconosciuto che la mobilitazione degli oppressi non è stata altro che l'effetto distorto della demagogia tribunizia dei loro capi, dell'irresponsabile esaltazione che questi hanno fatto di una pretesa capacità rivoluzionaria del popolo fino ad istituire con esso un perverso rapporto gregaristico-autoritario. Ad un anno dalla presa fascista del potere, Berneri aveva già scritto con grande lucidità: "I capi, per dominarla, servirono la massa". Le masse si sono dunque politicizzate, tuttavia è aumentata contemporaneamente la loro ricettività demagogica. Il risultato di tale commistione è stato, per l'appunto, il fascismo/comunismo: "che grandi masse proletarie siano passate dalle bandiere rosse ai gagliardetti neri è un fatto che dimostra, indiscutibilmente, l'impreparazione politica della classe operaia. Soprattutto dimostra che l'origine comune del fascismo e del comunismo viene da una equivalenza dovuta alla comune mobilitazione demagogica delle masse: "Mussolini è duce perché si gridava: Verrà Lenin. La fiducia nel liberatore crea il tiranno". A metà degli anni '30 la convergenza è ormai indiscutibile. I militanti bolscevichi e i militanti nazisti usano uguali tecniche di propaganda, la politica estera di Mosca è di fatto confluente con quella di Berlino, la Terza Internazionale ha tradito quella rivoluzione mondiale per la quale era nata, portando il movimento operaio alla disfatta. Inoltre fascismo e comunismo partecipano entrambi di un mito: "il feticcio statolatra" perché l'economia corporativa non è in sostanza tanto lontana dalla pianificazione sovietica. Ma soprattutto ciò che accomuna fascismo e comunismo è la negazione radicale dell'individuo. Peculiarità del totalitarismo significa infatti identificazione in un tutto onnipervasivo, vale a dire il predominio assoluto di un'entità collettiva sia che essa assuma le vesti della "classe", sia quelle della "razza". L'esempio più aberrante, ma anche più significativo, è rintracciabile nel rifiuto che alcuni ebrei fanno di seacute; stessi sotto l'incalzare della propaganda razziale. Il fenomeno dell'ebreo antisemita è spiegato in base ad un complesso di inferiorità che cerca di sfuggire a se stesso con una rimozione. La resistenza a questa protesta genera l'odio antisemita. L'amore di ciò che si vorrebbe essere (amore nato dal disprezzo di se stessi) determina l'odio verso ciò che si è. Ma poiché non si ha odio verso se stessi, si arriva ad odiare coloro che sono ciò che non si vorrebbe essere".
È interessante osservare come l'utilizzazione di categorie psicologiche permetta a Berneri di elaborare un modello interpretativo che va oltre il fatto specifico. La negazione di se stessi, attraverso una identificazione collettiva, è un tipico processo mentale prodotto dalla forma totalitaria, comune anche al comunismo. Possiamo così assistere ad effetti opposti, collaterali o diversi. Basti pensare a quello che avverrà qualche anno dopo con i processi di Mosca, dove avremo imputati che confessano colpe inesistenti e che riterranno giusto ciò che lo Stato-partito infliggerà loro!

Il destino storico dell'anarchismo
L'esperienza spagnola, pur riassumendo i temi fondamentali della riflessione di Berneri, non può esaurirne il significato ultimo. Infatti per l'anarchico italiano il vero problema è quello della fine di una forma storica dell'anarchismo (l'anarchismo socialista e operaio) e della effettiva assenza, negli anni '30, di una reale alternativa che non sia quella dell'anarcosindacalismo rimasto vivo, egemone e determinante proprio solo in Spagna. Per cui dietro il problema della crisi della forma storica stava il problema, decisivo, dell'essenza dell'anarchismo stesso. L'anarchismo era effettivamente tutto rinchiudibile nel movimento anarchico, vale a dire tutto riassumibile nella sua forma politica? È questo l'implicito interrogativo che egli si pone a mano a mano che registra le progressive sconfitte del movimento libertario in Italia, Stati Uniti, Francia, Argentina, Brasile, sconfitte che sono accompagnate dall'onda vincente della marea totalitaria. Nel momento magico del "biennio rosso" può scrivere ottimisticamente che gli anarchici rappresentano "una forza considerevole" lontana quindi da ogni disfacimento. Già due anni dopo ammette però che "il movimento anarchico è ancora in uno stato di infantilismo politico e di confusione morale". Nel 1924 lo stesso movimento gli appare una forza politica "sui margini della storia", e nel 1930 trova consolazione nell'idea che "tutti i movimenti e i partiti sono in crisi", per cui non c'è da disperare se anche gli anarchici lo sono. Nello stesso tempo però si domanda se la sua personale attività politica "non sia un rimestare senza costrutto nelle foglie secche di un'ideologia al suo tramonto".
Il fatto è che Berneri alterna questi giudizi perché recepisce in pieno il problema della scleroticità politica del movimento anarchico in quanto espressione ingenua di una concezione sociale che nei fatti è già superata. Ancora prigioniero di una immagine della realtà ormai in declino - come aveva già denunciato fin dal 1926 -, l'anarchismo non sa trovare una nuova veste politica a quella sua dimensione "universale" frutto del processo storico della convergenza dei totalitarismi. E tutto ciò proprio nel momento in cui l'intera situazione mondiale sembra dare conferma dei valori e degli insegnamenti etici dell'anarchismo stesso. Si tratta di una situazione paradossale dovuta alla civiltà di massa. Questa testimonia una partecipazione popolare effettiva, anche se male incanalata, per cui si può dire che comunque "la nostra è un'epoca di "maturità", cioè di sviluppo e di rivoluzione" tuttavia il prezzo che si è pagato è stato che questi "nostri tempi" se non hanno interamente ucciso l'eroismo, "stanno uccidendo la santità".
Nel linguaggio di Berneri tutto ciò significa che in prospettiva sarà sempre più difficile che vi sia uno spazio storico per un movimento come l'anarchismo che fa dell'azione politica un modo per agitare la questione etica. Berneri arriva così alla soglia della domanda fondamentale: quale è la causa della crisi dell'anarchismo? Sappiamo che la domanda rimase senza risposta. Emblematicamente senza risposta, perché gli fu impedito di rispondere: lo uccise quella convergenza del comunismo/fascismo che egli aveva individuato rapportandola alla crisi del movimento anarchico, nel momento dell'avvento della piena maturità umanistica dell'anarchismo.


Lodi 1897 / Barcellona 1937

Nato a Lodi nel 1897, Camillo Berneri trascorre la sua giovinezza a Reggio Emilia. Aderisce giovanissimo alla Federazione Giovanile Socialista, diventandone segretario cittadino. Nel 1915, dopo lunghe chiacchierate con l'operaio anarchico Torquato Gobbi, rassegna le dimissioni nelle mani di Camillo Prampolini e aderisce al movimento anarchico. Durante i tre anni del servizio militare, svolge un'intensa attività antimilitarista. Espulso dalla Scuola Militare di Modena come "sovversivo", viene condotto sotto scorta al fronte. Viene denunciato due volte al Tribunale di guerra.
Durante lo sciopero generale del luglio 1919 viene confinato sull'isola di Pianosa. L'anno successivo partecipa all'occupazione delle fabbriche. Come membro di una speciale commissione costituita dall'Unione Anarchica Fiorentina, si impegna nell'attività di risposta alle violenze delle squadracce fasciste.
Laureatosi in filosofia all'Università di Firenze, allievo particolarmente caro a Gaetano Salvemini, Berneri insegna in varie città italiane. Collabora alla stampa anarchica e ad altre testate, tra cui Rivoluzione liberale di Piero Gobetti. Ma il consolidarsi del regime fascista ed in particolare il "cordone di sicurezza" strettogli intorno dalle camicie nere spingono Berneri, nell'aprile '26, a prendere la strada dell'esilio. Ha 29 anni. Non vi farà più ritorno.
Per gli anarchici militanti, invisi a tutti gli Stati, nemmeno l'esilio assicura un po' di tregua. Dalla Francia Berneri viene espulso, dal Belgio anche: pur tra mille difficoltà (non ultima, l'insidiosa attività delle spie e dei provocatori fascisti), prosegue il suo impegno di propaganda e di lotta. Suoi articoli appaiono su diversi fogli anarchici, tra i quali L'Adunata dei refrattari (che esce regolarmente negli Stati Uniti).
Allo scoppio - luglio '36 - della rivoluzione spagnola, glil anarchici italiani sono tra i primi ad accorrere a Barcellona. Tra loro, anche Berneri. Della Colonna Italiana che subito si forma e parte per il fronte, Berneri è delegato politico. Partecipa alla battaglia di Monte Pelato. Rientra a Barcellona, dove è l'elemento di punta non solo degli anarchici di lingua italiana, ma un po' di tutti i settori più "intransigenti" dell'anarchismo internazionale.
Fonda un giornale, Guerra di classe, dalle cui colonne denuncia le manovre ed il ruolo dei comunisti succubi di Stalin e del Comintern. Polemizza anche con la tendenza "ministerialista" dell'anarchismo spagnolo. Difende il POUM, un piccolo ma combattivo partito di matrice marxista ma ostile a Stalin, dalla campagna di calunnie orchestrate da Mosca.
Alla prima occasione buona, i comunisti gliela fanno pagare. Nel corso delle "giornate di maggio" (1937), che vedono la tensione alle stelle ed anche pesanti scontri armati tra comunisti ed anarchici sulle strade di Barcellona, Berneri - insieme ad un altro anarchico italiano, Francesco Barbieri - viene prelevato in casa da agenti in borghese ed in divisa al soldo della staliniana GPU (la famigerata polizia politica). Il suo corpo, trafitto da colpi d'arma da fuoco, viene raccolto più tardi dalla Croce Rossa sulla piazza della Generalità. È il 5 maggio 1937.